Questo progetto è dedicato al mio amico e Senatore a vita Claudio Abbado: anche lui aveva un suo progetto per il Senato, ma non ha avuto il tempo di realizzarlo.
Aveva un grande desiderio, quasi un’idea fissa: che venga insegnata la musica nelle nostre scuole. Bisogna farlo perché la musica è un giardino straordinario ma va frequentato da bambini.
Vi è sempre stata una profonda consonanza tra il suo impegno civile e la musica: musica come riscatto per i carcerati, musica per valorizzare i giovani, musica come modo per togliere i ragazzi dalla strada. Mosso da questa aspirazione, collaborava con José Antonio Abreu e ogni tanto spariva e andava in Venezuela.
Lui è sempre stato convinto di una cosa, di cui sono convinto anch’io: la bellezza salverà il mondo e lo salverà una persona alla volta. Una persona alla volta, ma lo salverà.
Renzo Piano
L’intero stipendio da Senatore di Renzo Piano viene utilizzato per il progetto G124.
Diversamente politico
Il nostro futuro è nella parte fragile delle città. Così è nato il G124
di Renzo Piano
Quando il presidente Giorgio Napolitano mi ha nominato senatore a vita non ho chiuso occhio per una settimana. Mi domandavo: io, un architetto che la politica la legge solo sui giornali, cosa posso fare di utile per il Paese? Un Paese bellissimo e allo stesso tempo fragile. Sono state notti di travaglio ma alla fine si è accesa una lampadina: l’unico vero contributo che posso dare è continuare a fare il mio mestiere anche in Senato e metterlo a disposizione della collettività. Mi sono ricordato di una scena del film Il postino con Massimo Troisi, quando il personaggio di Pablo Neruda spiega: sono poeta e mi esprimo con questo linguaggio. Io invece sono un geometra genovese che gira il mondo e costruisco usando il linguaggio che conosco, quello dell’architettura. Ecco cosa posso fare.
Mi son detto: l’architetto è un mestiere politico, dopotutto il termine politica deriva da polis che è la città. La risposta come la intendo io è questa: quello che farò è un progetto di lungo respiro, come la carica di senatore a vita impone. Ma quale progetto?
Dagli studi liceali è affiorato alla memoria il giuramento degli amministratori agli ateniesi: prometto di restituirvi Atene migliore di come me l’avete consegnata. Per tutte queste ragioni ho pensato di lavorare sulla trasformazione della città, sulla sua parte più fragile che sono le periferie dove vive la stragrande maggioranza della popolazione urbana. Credo che il grande progetto del nostro Paese sia quello delle periferie: la città del futuro, la città che sarà, quella che lasceremo in eredità ai nostri figli. Sono ricche di umanità, qui si trova l’energia e qui abitano i giovani carichi di speranze e voglia di cambiare. Ma le periferie sono sempre abbinate ad aggettivi denigranti. Renderli luoghi felici e fecondi è il disegno che ho in mente. Questa è la sfida urbanistica dei prossimi decenni: diventeranno o no parte della città? Riusciremo o no a renderle urbane, che vuole anche dire civili? Al contrario dei nostri centri storici, già protetti e salvaguardati, esse rappresentano la bellezza che ancora non c’è.
Poi la periferia fa parte del mio vissuto, da sempre. Sono nato e cresciuto a Pegli, nella periferia di Genova verso Ponente vicino ai cantieri navali e alle acciaierie.
Nel ’68 quando ero studente al Politecnico di Milano vivevo a Lambrate e andavo rigorosamente in periferia per fare politica e anche per ascoltare jazz al Capolinea, in fondo ai Navigli come dice il nome stesso.
E anche oggi i miei progetti più importanti sono la riqualificazione di periferie urbane, dalla Columbia University ad Harlem, al nuovo palazzo di giustizia nella banlieue di Parigi al polo ospedaliero di Sesto San Giovanni che sorgerà dove un tempo c’era la Falck. Un’area che gli anglosassoni chiamano brownfield, ovvero un terreno industriale dismesso.
Questo è un punto importante nel nostro progetto di rammendo. Oggi la crescita delle città anziché esplosiva deve essere implosiva, bisogna completare le ex aree abbandonate dalle fabbriche, dalle ferrovie e dalle caserme, c’è un sacco di spazio a disposizione. Si deve intensificare la città, costruire sul costruito, sanare
le ferite aperte. Di certo non bisogna costruire nuove periferie oltre a quelle esistenti: devono diventare città ma senza espandersi a macchia d’olio, vanno ricucite e fertilizzate con strutture pubbliche. È necessario mettere un limite a questo tipo di crescita, non possiamo più permetterci altre periferie remote, anche per ragioni economiche. Diventa insostenibile portare i trasporti pubblici, realizzare le fogne, aprire nuove scuole e persino raccogliere la spazzatura sempre più lontano dal centro. Per questo con il mio stipendio da parlamentare ho
messo a bottega sei giovani architetti che si sono occupati nell’ultimo anno di rendere più vivibili lembi di città a Roma, Torino e Catania. E il prossimo anno saranno altri ragazzi a raccoglierne il testimone e a continuare.
Mi piace parlare di giovani perché sono loro e non io il motore di questa grande opera di rammendo e sono loro il mio progetto. Le periferie e i giovani sono le mie stelle guida in questa avventura da senatore, e non solo. Mi piace anche il concetto di bottega che ha una nobile e antica origine, una sorta di scuola del fare che in questo caso significa fare per il nostro Paese. Anche perché i nostri ragazzi devono capire quanto sono stati fortunati a nascere in Italia. Siamo eredi di una storia unica in tutto il pianeta, siamo nani sulle spalle di un gigante che è la nostra cultura.
Qualcosa noi del G124 abbiamo fatto: si tratta di piccoli interventi di rammendo che possono innescare la rigenerazione anche attraverso mestieri nuovi, microimprese, start up, cantieri leggeri e diffusi, creando così nuova occupazione. Si tratta solo di scintille, che però stimolano l’orgoglio di chi ci vive. Perché come scriveva Italo Calvino “ci sono frammenti di città felici che continuamente prendono forma e svaniscono, nascoste nelle città infelici”. Questi frammenti vanno scovati e valorizzati. Ci vuole l’amore, fosse pure sotto forma di rabbia, ci vuole l’identità, ci vuole l’orgoglio di essere periferia.