di Aldo Cazzullo
(Pubblicato sul Corriere della sera di martedì 29 marzo)
L’atelier di Renzo Piano è a un passo dal Beaubourg, l’opera che quarant’anni fa lo impose al mondo. Cento ragazzi da 18 Paesi diversi lavorano a un ospedale in Uganda, alla biblioteca di Atene, al museo archeologico di Beirut, al campus della Columbia a Harlem, a un centro culturale alla periferia di Mumbai. Qui si pensano le nuove città contro la barbarie (. ..)
(…) È vuoto il tavolo di Raphael, tedesco ucciso al Petit Cambodge il 13 novembre scorso: era con altri otto colleghi, Emilie si è presa una pallottola nella spalla; nessuno è scappato, tutti si sono aiutati l’un l’altro. Un altro giovane di studio, americano, era al Bataclan, è sopravvissuto. Renzo Piano sulla scrivania tiene le bozze del libro in uscita per il Corriere. In tre ore di conversazione, Piano ricostruisce il suo percorso e racconta i suoi progetti per questo tempo terribile e grandioso che ci è dato in sorte.
Il giovane Renzo
«A scuola ero un asino. Non che mi passasse in testa chissà che cosa; un asino autentico. Non sapevo studiare. In compenso suonavo la tromba. Gino Paoli è un mio amico d’infanzia: io ero lupetto, lui nei giovani esploratori. Siamo “figli di un temporale”, come diceva un altro di noi, Fabrizio De André: venuti fuori dalla guerra, cresciuti con la convinzione che ogni giorno ci allontanava da quella tragedia, che tutto — le strade, il cibo, il sorriso della mamma — sarebbe migliorato con il tempo. Per questo, a 78 anni, credo ancora all’idea folle per cui il tempo che passa migliora le cose: lasci perdere quel che non va, prendi quel che va. C’è una cosa che non condivido con il mio amico Beppe Grillo: la paura del futuro, che è l’unico posto dove possiamo andare».
Il Beaubourg
«Il modo più feroce, più esplicito di ribellarsi all’idea del centro culturale come mausoleo intimidente era fare una fabbrica. Una macchina come quelle pensate da Jules Verne. Ma anche un villaggio medievale in verticale, con le piazze sovrapposte. Una macchina urbana, aperta, trasparente, flessibile: tutto quello che ingombra l’abbiamo portato fuori, comprese le scale mobili, che svelano Parigi poco a poco. Il Beaubourg ogni sabato ha 30 mila abitanti, in 40 anni l’hanno visitato 250 milioni di persone. Al concorso partecipammo in 681. Il Sessantotto era finito da poco, Rogers e io vivevamo a Londra. Non pensammo di vincere per un solo attimo».
L’importanza della musica
A fargli notare che le opere successive sono molto diverse dal Beaubourg, Piano risponde di badare alla coerenza, non allo stile: «L’importante è svicolare dall’accademia, ribellarsi alle tendenze, andare alla fonte delle cose. Respirare la realtà, farla cantare. Il cinema neorealista è stato molto importante per me. Come lo è stata la musica. Con il tempo da trombettista sono diventato liutaio: l’auditorium di Roma è una cassa armonica. A Parigi collaborai con Pierre Boulez, che mi fece incontrare John Cage, Karlheinz Stockhausen e due artisti che sarebbero diventati amici della vita: Luciano Berio e Luigi Nono. Come gli architetti, i musicisti lavorano sulla materia, che per loro è il suono; per Boulez, il rumore. La vibrazione della corda per gli archi, l’aria per i fiati. Una solida base d’ordine cui ti diverti a disobbedire. Come in architettura, appunto».
I grattacieli
«Non ho mai fatto grattacieli arroganti, ma macchine urbane». Lo Shard di Londra è la torre più alta d’Europa. «Non mi interessa. Presto sarà superata. Ma è una torre che non finisce, le schegge di vetro si perdono nel cielo, esprimono uno slancio, un’aspirazione, al centro di un quartiere risorto. Nel cantiere avevamo operai di 70 nazionalità diverse. A Osaka avevamo 5 mila lavoratori: tutti giapponesi. Un cantiere è un’avventura dello spirito e anche fisica: in Nuova Caledonia abbiamo avuto quattro uragani con vento a 220 chilometri; in Giappone in 36 mesi contammo 35 terremoti. Sul cantiere del Beaubourg venivano Umberto Eco, Michelangelo Antonioni, Marco Ferreri, Roberto Rossellini, Italo Calvino, che dava suggerimenti su come pulire le pareti di vetro. Venne il signor Honda e disse: “Mi piace, sembra una motocicletta”. Sul cantiere di Postdamer Platz a Berlino ho conosciuto Mario Vargas Llosa. Anche lì c’erano 5 mila operai, tra cui cento palombari ucraini, per piantare le fondamenta sott’acqua. Trovarono sei bombe della seconda guerra mondiale, inesplose: “Sono russe, quindi non esplodono” dissero con un sorriso. Ora qui nella banlieue di Parigi stiamo costruendo il Palazzo di Giustizia: trasparente, come la verità; deve ispirare fiducia, non mettere soggezione». Come trova i nuovi grattacieli di Milano? «Sono un segno di vitalità, che è sempre una buona cosa. Ma la mia Milano è quella delle periferie. Quando studiavo al Politecnico abitavo a Lambrate, andavo a sentire il jazz in un locale in fondo ai Navigli, che si chiamava non a caso Capolinea».
La scommessa delle periferie
«Le periferie sono sempre associate ad aggettivi negativi. Sono considerate desolanti, alienanti, degradate, brutte. Proviamo invece a guardarle con occhio positivo, a cercare quel che c’è di sano. Le periferie sono ricchissime di una bellezza umana e spesso anche di una bellezza fisica, che è nascosta, che emerge qua e là. Come scrive Italo Calvino nella postfazione delle Città invisibili, anche le più drammatiche e le più infelici tra le città hanno sempre qualcosa di buono. Questo approccio alla periferia è come andare a caccia di perle, di scintille. Viene da lontano, dal mio essere genovese, uno che non butta via niente: Braudel l’aveva capito, Genova stretta tra il mare e la montagna è stata educata a non sprecare nulla. Così, quando Napolitano mi fece senatore a vita, mi è venuto naturale pensare che il mio impegno politico sarebbe stato far lavorare giovani architetti nelle periferie italiane. Quest’estate porteremo i progetti alla Biennale dell’architettura».
Il Giambellino
I progetti sono a Torino, Catania, Roma e Milano. Si tratta di «dare forza e ossigeno a mille cose che già c’erano». Basta casette a perdita d’occhio: «L’idea della città che cresce diluendosi si è rivelata insostenibile. Come porti i bambini a scuola, come organizzi il trasporto pubblico, come medichi la solitudine? Le città sono luoghi di incontro, di scambio, in cui si sta insieme, si costruisce la tolleranza, l’idea che le diversità non sono per forza un problema, sono una ricchezza. La città ora cresce per implosione, riempiendo i buchi neri. Al Giambellino vivono 6 mila persone, 18 etnie. C’è la signora che d’estate invita la gente a scendere in cortile con la sedia e fa il cinema. L’elettricista egiziano che aggiusta gratis i citofoni rotti dai vandali. Abbiamo abbattuto il muro tra il parco e il mercato. Lavoriamo con la gente del quartiere per costruire una biblioteca. Servono tanti cantieri piccoli, microinvestimenti, microimprese: lavoro per le nuove generazioni. Dobbiamo fertilizzare le periferie con edifici civici. Non solo musei; librerie, ospedali, palazzi pubblici, stazioni della metropolitana, posti dove la gente si ritrova. Allo scorso esame di maturità uno dei temi era il rammendo delle periferie: sono stati scritti 60 mila compiti; tutti ragazzi nati in periferia».
Il ruolo della politica
«Sono lungi dal disprezzare la politica. In Senato ho provato ad andarci, ci andrò ancora, ma sono più utile nel mio ufficio a Palazzo Giustiniani. Comunque, ogni volta che metto piede nell’Aula sono davvero onorato, fiero. È una grande istituzione. Al referendum di ottobre sulla riforma costituzionale voterò sì. Se il Senato diventa più piccolo, meno ridondante, se costa meno, è cosa buona. Non vorrei perdesse il suo ruolo di guida morale del Paese: l’abbiamo inventato noi italiani, l’abbiamo esportato ovunque. Deve rimanere il luogo in cui si discutono i grandi temi della società». «L’architetto è un mestiere politico. La ricerca estetizzante della bellezza, quando è fine a se stessa, è inutile. Ma Sengor, con cui lavorai in Senegal, mi ha insegnato che il bello, quando è autentico, non è mai disgiunto dal buono. È l’idea dei greci: kalos kagathos, bello e buono. È un’idea che ho ritrovato in Libano. È il principio della civiltà mediterranea, oggi messa così a dura prova».
Farebbe il Ponte sullo Stretto? «Un vero costruttore è sempre favorevole a gettare ponti, è sempre contrario ad alzare muri». E qual è il costruttore della storia che ammira di più? «Brunelleschi. Il primo a curvare la cupola, dopo secoli che l’uomo non ne era più capace; e dimostra che è possibile costruendo un modellino di legno. Da giovane faceva l’orologiaio: un artigiano diventato artista. Il percorso contrario è molto più difficile. Fondere arte e tecnica: qui è la grandezza».